Riassunto
La storia agraria dell’Italia nel Medio Evo appartiene al novero dei problemi ancora poco studiati. Nonostante che negli ultimi 10—15 anni siano apparsi una serie di articoli e alcune monografie di studiosi italiani e sovietici dedicati a questo tema (opere di L. Dal Pane, G. Luzzatto, R. Romeo, C. Violante, P. Santini, I. Imberciadori, G. Chittolini, E. Conti, S. D. Skaskìn, M. L. Abramson, L. M. Braghina, E. V. Bernadskaja, A. H. Gorfunkel, V. V. Samarkin, L. A. Kotelnikova) ancora molti problemi attendono di essere indagati. Tra di essi — particolarmente importante per l’Italia — é il problema dell’interdipendenza tra la città e la campagna.
In Italià, paese in cui le città si sono sviluppate prima che altrove, lo studio dei rapporti agrari staccato dalla storia delle città non può èssere, secondo noi, proficuo. Il grado di penetrazione dei rapporti mercantili — monetari nell’economia della campagnà, la forza d’influenza dei primi elementi capitalistici sviluppatisi nella città sulla campagna, possono1 essere indagati solo se si esaminano, nella loro resiprocità, A processi profondi dell’ azione della città italiana e del suo significato nella vita della campagna. Ciò a suaVolta può'fornire determinati dati supplementari per spiegare le cause della breve esistenza :è della precarietà dei primi rapporti capitalistici nelle città del XIV0 secolo, che è problema estremamente importante per la storia dell’Italia medioevale e per molti aspetti ancora non chiaro. Nel presente libro l’autrice si è posta il compito di indagare i problemi sopraindicati innanzitutto sul materiale ricavato dalle fonti dell’Italia Centrale (e in parte Settentrionale) e in primo luogo della Toscana, zona dei più grandi centri commerciali e industriali dell’Italia medioevàle, ove nel XIV0 secolo apparirono i primi elementi della produzione capitalistica ed ebbero luogo le prime rivolte degli operai salariati. Il libro è composto dall’introduzione che contiene un breve saggio storiografico e una rassegna delle fonti bibliografiche e da tre capitoli. Capitolo I L’evoluzione della rendita fondiaria feudale nell’sec e le sue cause. L’evoluzione della rendita fondiaria feudale nell'Italia Centrale dell’ XI—XIV secolo, malgrado certe sue peculiarità, nei contadi di diverse città aveva un qual che di comune e principale: essa partiva dalla prevalenza e da una vasta diffusione della rendita in denaro nei sec. XI0—XII0 e giungeva al dominio quasi totale della rendita in natura nei sec. XIII0—XIV0. (Nel Contado di Lucca dal XII0 sec.). Una simile evoluzione della rendita era legata in modo diretto ed immediato sia alla prosperità delle città, più grandi centri industriali e commerciali (Firenze, Siena, Lucca), che alle sostanziali modificazioni nella struttura della proprietà fondiaria feudale, dovute all'influenza dello sviluppo urbano e dei rapporti mercantili— monetari nel paese. Il trasferimento di centinaia di feudatari con le loro famiglie nelle città faceva si che i nuovi cittadini si legavano spesso al commercio e all’usura, o all’attività artigianale. Al tempo stesso i popolani diventavano sempre più spesso proprietari fondiari, mentre il Comune della città (e per esso il ceto dirigente) diventava signore collettivo di un grande numero di fondi. Questi nuovi feudatari — borghigiani e popolani — proprietari fondiari cercavano di subordinare la produzione delle aziende contadine dipendenti allo Scopo di ottenere la maggiore quantità possibile di prodotti agricoli e di grano, in primo luogo; sia per il consumo personale che particolarmente per losmercio sul mercato della città (che si estendeva sempre più) e fuori di essa. Capitolo II: Emancipazione dei servi e coloni Nella storia dell’Italia Settentrionale e Centrale il XII0—XIII0 secolo rappresenta il periodo deH‘emancipazione dalla servitù di un grande numero di servi e coloni. I servi nell’Italia Centrale e Settentrionale nel XII0—XIII0 secolo continuavano ad essere lo strato più basso della società e si trovavano nelle condizioni ancora più umili dei servi di altri paesi dell'Occidente europeo. Tra essi vi erano parecchi famuli domestici e servitori di corte anche se la maggioranza di essi, ovviamente, divennero già usufruttuari a dipendenza feudale, e si avvicinavano gradualmente ai coloni. Però nei secoli XI0—XIII0 i servi si distinguevano ancora notevolmente dai coloni. L'emancipazione personale dei servi nei secoli XII0—XIII0 non fu dovuta soltanto alle azioni universalmente note delle città (in primo luogo di. Bologna), la liberazione di gruppi e di singoli servi, da parte dei laici e della chiesa. Vi era anche l’evoluzione graduale degli elementi della libertà personale nello stato dei servi e il loro avvicinamento alle altre categorie dei contadini a soggezione feudale (coloni, ascriptizi e persino livellari). Nei secoli XII0—XIII0 sono più frequenti i casi di liberazione dei servi da parte dei loro signori — feudatari laici ed ecclesiastici. La condizione di assoggettamento servile, nella quale vegetavano i servi, condizionò in una determinata misura anche la peculiarità della loro emancipazione. I padroni li liberavano spesso dalla loro condizione di schiavitù. Per diventare completamente liberi i servi, come nei tempi remoti dei longobardi, dovevano es sere proclamati «cives romani», «fulcfree et haamund», portati dal sacerdote attorno all’altare, messi in libertà al «bivio di quattro strade», ecc. Spesse volte i servi dovevano pagare un’alta somma di denaro per la propria emancipazione. I servi potevano disporre del peculio e dei lotti da lavorare, ma nelle condizioni di allora difficilmente esisteva una reale possibilità che una più o meno notevole parte di servi potesse diventare piccoli proprietari liberi. Di regola essi diventavano usufruttuari a dipendenza feudale, a partire dai coloni fino ai livellari. Nel 1256—1257 in Italia si verificò un avvenimento d’importanza eccezionale: il Comune della città di Bologna costrinse 406 feudatari a vendere al Comune 5682 servi per una somma assai elevata, all’incirca 50 mila lire. Molti dei servi liberati da Bologna venivano «ascritti» ai comuni rurali e ai distretti (non si capisce perchè a questo fallo non si dedicava attenzione nella letteratura) ove essi dovevano d’ora in poi vivere e pagare le tasse a favore della Città del proprio Comune. «Liber Paradisus» di Bologna del 1257 fu l’atto conclusivo di una serie di decreti del Comune, è cui atti più importanti furono quelli del 7—26 giugno; 31 luglio e 25 agosto del 1256. Lo strato più numeroso dei contadini in Italia nell’ XI—XIV secolo era costituito da coloni, ascriptizi, massari, manentes — usufruttuari dipendenti, anch’essi privi della libertà personale in modo assai notevole, che però per la loro posizione sociale, giuridica ed economica si trovavano su un gradino più alto rispetto ai servi. Il tratto caratteristico della mancanza di libertà personale di coloni era dato dalla costrizione alla terra da essi coltivata. Alla fine del XII0 secolo e particolarmente nel XIII0 un numero sempre maggiore di coloni acquisiva gradualmente gli elementi della libertà personale e del diritto ai beni, propri dei livellari e degli altri usufruttuari perpetui (diritto di disporre nell’uno o nell’altro modo dell’appezzamento di terra, la possibilità di intervenire nel tribunale come testimoni e persino querelanti, l’assolvimento degli obblighi dei liberi membri del comune urbano e rurale, ecc.). Molti coloni acquisirono la libertà personale in seguito ai contratti livellari e contratti sulla locazione perpetua (o sull’affitto a breve scadenza) stipulati con i loro stessi (o altri) signori, o con singoli borghigiani. Ci sembra che la maggioranza dei coloni abbia ricevuto la liberazione personale non mediante speciali atti dei feudatari chiesastici o laici (non molti atti simili sono conosciuti), e non in seguito ad apposite deliberazioni legislative delle Città. Però ciò non significa che tali atti non abbiano affatto avuto la loro importanza. Le deliberazioni degli statuti delle città di Pisa, Siena, Lucca e Volterra relative all’ordine de trasferimento nelle città dei servi della gleba, naturalmente, contribuivano all’emancipazione di una parte dei contadini dalla servitù della gleba (prin cipalmente non dei «loro» Contadi). E ciò era molto importante! Come se la città «tirasse» la campagna arretrata (ove rimanevano ancora forme assai dure di servaggio) al suo elevato livello di sviluppo della produzione mercantile. Però, come abbiamo cercato di dimostrare, è difficile che la maggioranza dei contadini abbia potuto ricevere la libertà in questo modo. Di solito nelle città deli Italia Settentrionale e Centrale i contadini — servi della gleba del «proprio» Contado acquisivano la libertà solo dopo una lunga permanenza nelle città (di regola non inferiore ai 10 anni) e soltanto nel caso allorché entro tutto questo periodo il signore non poteva o non voleva indurre loro a ritornare nei loro lotti. Certo, molti coloni e villani (come pure i servi) fuggivano semplicemente in città malgrado tutte le proibizioni e limitazioni delle autorità cittadine e superate innumerevoli barriere diventavano cittadini liberi. Ma ciò avveniva ad onta delle autorità e nono può essere considerato quale risultato della politica della città. E’difficile definire emancipazione di massa quella, largamente nota, dei coloni operata da Firenze nel 1289—1290. Il Comune della città dichiarò la liberazione die coloni di quei feudali, i quali non si sottomettevano al suo potere, conservando — anche se modificato — il potere sui coloni da parte del Comune stesso e dei signori che si trasferirono a Firenze, o che ne riconoscevano l’autorità. Le eccezioni furono in singole zone del Contado (per esempio: Mugello) ove fu proclamata la liberazione di tutti i coloni. In tutte le condizioni i coloni fiorentini dovevano versare un grande riscatto per la loro emancipazione dalla servitù della gleba. Non si sa se molti di loro erano in condizione di farlo (viene da pensare che non tutti, altrimenti a che sarebbe servito ripetere una simile prescrizione negli statuti del XIV0 e persino del XV0 sec.). Le deliberazioni del Comune di Firenze del 1289—1290 erano dirette contro i grandi, ostili alla città. Ma tutta la complessità della vita politica di Firenze consisteva nel fatto che i grandi ed i popolani per loro natura sociale ed economica nel XIII0 e tanto più nel XIV0 secolo nono costituivano più due strati opposti. Molte famiglie di magnati nel XIII0 secolo si occupavano dell’attività bancaria e commercialeindustriale essendo membre delle compagnie e in uno o nell’altro modo legate ad esse. Dall’altra parte nel XIII0 e XIV secolo molte famiglie dei popolani allargarono fortemente i loro acquisti di terre. Da ciò si comprende sia il compromesso degli «Emendamenti del 1295» agli «Ordinamenti della Giustizia» che attenuavano il loro indirizzo antimagnate, sia l’incoerenza delle deliberazioni del 1289—1290. In queste ultime si dichiarava l’abolizione della servitù della gleba sulle terre dei feudatari ostili al Comune (occorrevano lavoratori liberi ed era più comodo ottenerli in questa via!), ma i coloni rimanevano sulle terre del Comune stesso e delle persone che si trovavano sotto la sua giurisdizione. I popolanipro prietari fondiari non volevano restare senza i loro coloni e temevano che la completa abolizione della loro servitù (che si esprimeva principalmente nella costrizione alla terra) avrebbe portato all’esodo di molti coloni. Perlopiù l’industria della città, evidentemente, aveva ancora sufficenti lavoratori che venivano dai Contadi «altrui», nonché i liberi usufruttuari e affituari del proprio Contado. Una parte di contadini liberati riscattò una parte dei loro precedenti lotti trasformandoli nella libera proprietà parcellare. Però la percentuale di questo strato era probabilmente esigua, ed in generale tra i coloni vi erano poche persone in grado di pagare un alto riscatto per la loro emancipazione e per gli appezzamenti. Il maggior numero dei coloni che si erano riscattati diventarono usufruttuari perpetui (a volte affittuari a breve scadenza) dei loro precedenti o nuovi appezzamenti presso lo signoreproprietario. Per molti di loro ciò significò un miglioramento sostanziale della loro posizione. Nel frattempo — a volte—essi continuavano a subire alcune limitazioni della loro libertà personale. Capitolo III: Livellari e mezzadri (evoluzione degli usufrutti perpetui nei secoli XI0—XIV0. Affitto) Un gruppo assai numeroso di contadini italiani nell’ XI — XIV secolo era costituito dai livellari ed altri usufruttuari perpetui. Il contratto di livello è un fenomeno specifico della storia italiana;, esso era largamente diffuso nel paese ancora nel IX0—X secolo. Nell’ XI0—XIV0 secolo i livellari potevano provenire dagli stati sociali più diversi: contadini, artigiani, piccoli e grandi feudatari, popolani, autorità comunali delle città e delle cancellerie reali, istituzioni chiesastiche e rappresentanti del clero. Nel presente capitolo abbiamo proposto una metodica particolare per mezzo della, quale abbiamo cercato di distinguere nelle fonti diversi tipi sociali di livellari. Però la massa essenziale di livellari e di altri usufruttuali perpetui (non chiamati livellari, ma per posizione vicini ad essi) era costituita dai contadini. Al centro del nostro studio erano non le condizioni giuridiche dei contratii di livello prese a sè indipendentemente dallo stato sociale dei livellari, ma l’analisi della posizione reale socialegiuridice dei livellari di diverso tipo. Le condizioni giuridiche dei contratti di livello e di altri perpetui stipulati dalle persone di diverso stato sociale a volte erano simili (possibilità di disporre dell’ appezzamento, multa per l’inosservanza delle condizioni dell’usufrutto, canone in denaro a volte relativamente basso). Però nella loro sostanza i contratti di livello stipulati dai feudatari chiesastici e laici (sia grandi che piccoli) sono del tutto diversi. Il livellariofeudatario stabilisce praticamente un legame di vassallaggio col signore. Grandi complessi dì terre con i contadini dipendenti — massari e servi che le lavoravano, le case dei signori e le corti, le terre dominiche, le decime,, le chiese, intere fortezze o parte di esse, erano di regola oggetti dell’ usufrutto. Un basso canone (che è del tutto incommensurabile con il valore reale degli oggetti trasmessi) e una multa relativamente bassa per l’inosservanza del contratto, servono soltanto da copertura simbolica (e quest’ultima a volte ci vuole solo per «farla vedere» al signore) della reale alienazione di questi oggetti nella proprietà feudale del livellario. Perlopiù i diritti di disporre della terra riconosciuti dal contratto sono assai vicini ai diritti del proprietario supremo e la maggior parte della rendita riscossa dagli usufruttuari immediati perviene di regola appunto al signore diretto e non a quello supremo. Il contratto stipulato dal contadino è un usufrutto feudale perpetuo. Anche se nei loro diritti di disporre dell’appezzamento molti contadinilivellari si avvicinavano ai proprietari, ma da quest’ ultimi li separava una barriera. La cosa importante è che a favore del proprietario essi fanno prestazioni feudali: (niente affatto simboliche particolarmente se si tengono presente le dimensioni non grandi degli oggetti livellari) canone in natura o in denaro, prestazione di carro e alberghiera, a volte si sottomettono alla giurisdizione del signore. A volte si limitano anche i diritti dei livellari nella vendita e nella messa in sublocazione degli appezzamenti livellari. Non sempre i livellari ed altri usufruttuari perpetui avevano la possibilità di lasciare liberamente l’usufrutto. E al contrario in singoli casi per l’inosservanza del contratto, essi potevano essere privati degli usufrutti. Per acquistare l’usufrutto in proprietà essi dovevano pagare una determinata somma di denaro. Una forte multa per l’inosservanza delle condizioni dell’usufrutto con il contratto in vigore (che era la regola nell’ XI0—XII0 secolo) segnava per il contadino un forte aumento dell’onere delle sua prestazioni (con ciò per il proprietario della tenuta, anche nel tribunale non locale, era più facile che per il contadino provare il fatto di questa «inosservanza» o del «peggioramento» dell’appezzamento) nel frattempo una simile multa poteve essere facilmente riscossa dal feudatariolivellario. Perciò sarebbe sbagliato pensare che il contratto di livello nell’ XI0—XII0 secolo trasformasse i contadinilivellari praticamente in proprietari liberi, non legati dalla soggezzione feudale e che fosse assai vantaggioso per tutti i contadini. Nel frattempo è indubbio che le condizioni del contratto di livello nell’ XI0—XII secolo davano a una notevole parte di contadini, particolarmente a quelli agiati, possibilità favorevoli (rispetto ad altri usufrutti contadini) per la conduzione autonoma dell’ azienda con la minima dipendenza dal proprietario terriero. Con ciò questa forma di usufrutto dava un largo spazio allo sviluppo delle forze .produttive nell’agricoltura, Non a caso la stipulazione del contratto di livello (com eppure di altri contratti nell’usufrutto perpetuo) diventò nell'Italia Centrale nell’ XI0—XII secolo una delle vie essenziali dell’ emancipazione dei contadini dipendenti personalmente (massari, coloni, ascriptizi, manentes). Numerosi contratti di livello stipulati dai coloni e dai massari lo confermano in modo convincente. Un posto particolare tra i livellari occupavano gli artigiani, abitanti perlopiù della città (ciò è particolarmente caratteristico per Firenze nell’ XI—XII secolo). Essi ricevevano in usufrutto piccoli appezzamenti in città o in sobborghi sui quali c’era obbligatoriamente la casa e la bottega artigiana. Il loro pagamento per l’usufrutto era rappresentato non tanto dalla parte del prodotto eccedente, ricevuto nella agricoltura, quanto dalla parte del reddito ottenuto dal lavora artigianale che si pagava per il terreno sul quale si svolgeva questa attività. Quali erano le sorti del contratto di livello e di altri tipi di usufrutto perpetuo nel XIII—XIV secolo? La composizione sociale dei livellari e degli usufruttuari perpetui di altro tipo è molteplice come prima. Quali signoriproprietari terrieri si presentano sempre più spesso i cittadini e il Comune della città o rurale nel complesso. I cittadini figurano spesso anche tra i livellari e gli altri usufruttuari perpetui. Molti livellaricontadini nel XIII0 secolo acquisirono ancora maggioli diritti all’usufrutto rispetto all’ XI0—XII0 secolo; si avvicinarono ancora di più alla barriera che separava i possessori dai proprietari (il diritto perpetuo all’appezzamento, la possibilità di vendere l’usufrutto o di rinunciare ad esso, in molti casi l’assenza di qualsiasi altro obbligo tranne quello di pagare un esiguo canone in denaro e in natura). A volte il passaggio stesso dell’appezzamento in usufrutto di livello o di enfiteusi veniva trattato come la sua vendita, mentre la paga per l’investitura superava il canone di parecchie volte. Però questi livellari, nonostante ciò, non diventarono proprietari, lo testimoniano sia le riserve speciali negli atti di tal genere, sia nelle apposite deliberazioni delle autorità cittadine. Il contratto di livello nel XIV0 secolo, evolveva gradualmente verso l’avvicinamento con la mezzadria e l’affitto a breve scadenza. Si accentuava l’intervento del proprietario nell’ attività economica del livellario, si limitavano i diritti ai beni e a volte i diritti personali dell'usufruttuario. Nel XIII0—XIV secolo nella campagna italiana si diffonde notevolmente la locazione a breve scadenza di due tipi: mezzadria e affitto. La mezzadria italiana, che resta finora nella campagna dell’Italia Centrale, da oltre cento anni è al centro dell’ attenzione degli studiosi. Nella storiografia italiana si è formata una teoria della mezzadria, per mezzo della quale alcuni esponenti attuali, come Ildebrando Imberciadori, cercano di motivare la tesi sul «vantaggio» e sulla «utilità» di questo contratto per il con fadino contemporaneo. I fautori della stessa teoria partono eh solito soltanto dagli aspetti giuridici del contratto sulla mezzadria. Nel presente lavoro ci siamo posti il compito di esaminare innanzitutto la composizione sociale dei contraenti del contratto, l’importanza di certe condizioni dell’affitto per le persona di diverso stato sociale, definire la funzione e il posto del lavoro salariato nella «mezzadria classica», seguire l’evoluzione della mezzadria nell’ Vili0—XIV0 secolo. Secondo il nostro parere, sarà questa analisi che ci permetterà di comprendere giustamente la specificità e la sostanza della «mezzadria classica». La mezzadria italiana nell’ VIII—XI1 secolo è l’usufrutto feudale a condizioni assai onerose (in alcuni casi il proprietario della terra — feudatario concedeva una parte di sementi e di bestie a quei usufruttuari che ne avenavo particolarmente bisogno). Nel XIII0—XIV0 secolo, nel periodo dei rapporti mercantilimonetari altamente sviluppati, si modifica notevolmente la composizione sociale dei proprietari e degli affittuari — mezzadri. Tra i proprietari terrieri che danno la terra in «mezzadria classica» si riscontrano sempre più spesso i cittadimi — sia i feudatari trasferitisi in città, una parte dei quali si dedico ad occupazioni del tutto diverse non legate alla terra, che gli strati collegati all’industria e al commercio compresi i grandi banchieri, manifattori ed autorità cittadine. A volte essi danno la terra in affitto ai contadini agiati o agli stessi manifattori, artigiani e mercanti — cittadini i quali non lavorano essi stessi la terra (o non solo essi stessi se si tratta di contadini agiati) ma mettono i subaffittuari e a volte utilizzano come mano d’opera supplementare anche i salariati. Con. tali contraenti e con tale modo di lavorare la terra la mezzadria può contenere in se elementi di nuovi rapporti, non feudali, di passaggio all’ affitto semicapitalistico. Analogamente alla tendenza suindicata, gli elementi di rapporti nuovi si riscontrano anche nella soccida, quando i suoi contraenti sono gli ambienti commerciali e artigianali della città, perlopiù legati alla produzione manifatturiera dei centri progrediti urbani dell'Italia. La mezzadria rappresentava una forma conveniente e vantaggiosa di sfruttamento della terra con investimenti relativamente piccoli di capitale, (era l’affittuario che sosteneva il grosso delle spese!) e con la possibilità di ottenere profitti abbastanza alti. Nel XIII—XIV secolo il proprietario poteva non soltanto utilizzare il grano per il proprio consumo personale, ma anche venderlo con lucro (nelle condizioni della mancanza di grano nelle città). Naturalmente ciò non significa affatto che tutti gli strati commercialiartigianali sfruttassero i loro possedimenti terrieri con i nuovi metodi, diversi da quelli consueti feudali. Sulle loro terre c’erano molti coloni, massari e persino servi, nonché livellari. Sorse ed esisteva la possibiità, la tendenza all’apparizione degli elementi di nuovi rapporti, ma la loro ulteriore evoluzione dipendeva da molti fattori, ed in primo luogo dallo sviluppo generale della produzione mercantile, al di fuori dell’ agricoltura che era ancora insufficente nell’ Italia del XIIF—XIV secolo. Quando noi cerchiamo di chiarire la sostanza della mezzadria italiana del XIII—XIV secolo, va ricordato sempre che la composizione degli affittuari—mezzadri era eterogenea. Tra i mezzadri c’erano non soltanto (e non tanto) contadini agiati o persone dello stato non contadino. I contadini impoveriti che avevano perduto i loro usufrutti per diverse ragioni (debiti, disdetta del contratto da parte del proprietario, emancipazione dalla servitù della gleba e impossibilità di riscattare la terra per «povertà» o la rovina in seguito al riscatto, ecc.) avevano bisogno dell’aiuto del proprietario, poiché a volte essi non avevano nè bestiame da soma nè sementi. Appunto su di essi incombevano i «servigi supplementari» a carattere prettamente feudale, oltre il versamento della metà del raccolto. A volte (più spesso nel XIV0 secolo che nel XIII) il proprietario non dava senza ricompenso la metà dei sementi o del bestiame, ma richiedeva la restituzione di questo prestito. Il mezzadro stessocontadino doveva oltre alla metà del raccolto tributare prestazioni supplementari, fare la corvée nei campi, attività alberghiera e pagare alcune banalitée. Il mezzadro subiva diverse restrizioni nei beni e, a volte, nella persona da parte del proprietario terriero, che aumentavano gradualmente dalla seconda metà del XIV secolo. Nei casi in cui le feudatari (anche e cittadini) erano proprietari della terra e i contadini impoveriti «aiutati» dai proprietari erano affittuari, scorgiamo l’affitto feudale — usufrutto che differiva poco da quel contratto di livello e di enfiteusi del XIV secolo, in cui il livellariocontadino impoverito subiva parecchie restrizioni da parte del proprietario. Gli investimenti di capitale, da parte del proprietario, qui sono praticamente un consueto prestito che comporta una rendita feudale assai alta (metà del raccolto più numerose «prestazioni supplementari»). Nella mezzadria del XIII—XIV0 secolo gli elementi prettamente feudali occupavano ancora un notevole posto e la loro funzione aumentava sempre di più a partire dalla seconda metà del XIV0 e particolarmente nel XV0 secolo, quando le condizioni del contratto peggiorarono specialmente per l’affittuariocontadino. Altri tipi dell’affitto a breve scadenza, in Italia, nei secoli XIII— XIV0 avevano ancora un carattere pienamente feudale e non contenevano nessun elemento di rapporti nuovi non feudali. Ai nuovi elementi semicapitalistici che dichiararono il loro «diritto all’ esistenza» nella struttura sociale feudale della campagna italiana, alla fine del XIIF—XIV secolo vanno riferiti anche i salariati agricoli. La maggior parte di loro restavano ancora affittuari e usufruttuari, per i quali il lavoro salariato aveva un carattere sporadico ecl era piuttosto un «assistenza» al vicino agiato e una paga supplementare. Cionondimeno nei documenti del XIII—XIV secolo (particolarmente negli statuti delle città) si riscontrano anche i salariati permanenti che lavoravano quotidianamente per la paga (e a volte anche per il vitto) nei campi, nei frutteti e nei vigneti che appartenevano ai cittadini — mercanti e industriali. Ma anch’essi, evidentemente, continuavano di regola ad avere il proprio orto ed un appezzamento di terra. Quindi la campagna italiana alla fine del XIII—XIV secolo «segui la città» nel senso che anche ivi apparvero alcuni nuovi elementi di passaggio a rapporti semicapitalistici (mezzadria, salariati). I. cittadinipopolani dando le loro terre, nel Contado, in mezzadria classica con l’immissione più a meno sistematica del lavoro salariato passano quindi in parte a nuovi metodi di conduzione delVeconomia, diversi da quelli vecchi feudali. Però simili aziende non avevano, ancora un ruolo più ó meno sostanziale nell’ Italia Centrale, del XIII—XIV secolo, nel mare delle tenute prettamente feudali, che applicavano il lavoro dei coloni, dei livellari, degli enfiteuti e degli affittuari di tipo feudale — «consueti» mezzadri e affittuari. I deboli germi di nuovi rapporti semicapitalistici in compagna non erano destinati a svilupparsi ulteriormente. Già dalla seconda metà del XIV e particolarmente nel XV secolo nella campagna dell'Italia Settentrionale e Centrale si manifesta sempre più palese la tendenza al peggioramento delle condizioni dell’usufrutto degli affittuari perpetui — livellari e enfiteuti, all’accentuarsi degli elementi della loro dipendenza personale dai proprietari terrieri. Aumenta il numero degli obblighi «prettamente feudali» dei mezzadri «classici». In altri termini, nella struttura sociale della campagna italiana del Nord e del Centro, a partire dalla seconda metà del XIV0 e particolarmente nel XV0 secolo, si verifica l’incremento delle tendenze degli elementi regressivi, conservatori. In tutto il libro viene esaminata non soltanto l’influenza economica dello sviluppo delle città sulla struttura del possesso fondiario feudale, sull’ evoluzione della rendita fondiaria, sulla posizione economica e socialegiuridica dei contadini, ma anche diversi aspetti della politica agraria delle città (nei problemi inerenti alla riscossione della rendita fondiaria e ai rapporti d’affitto, alla liberazione dei servi e dei coloni, all’opposizione di classe dei contadini). Come ci sembra, appunto questi aspetti della politica delle città permettono di chiarire meglio il problema che ci interessa, quello dell’ incidenza dello sviluppo delle città sui profondi processi dei rapporti economicosociali nella campagna italiana. La peculiarità specifica nella posizione di un gran numero di città italiane nel XII—XIV secolo, quando essendo esse grandi centri dell’ industria e del commercio in sviluppo, come pure i mercanti, i manifattori e gli usurai che le popolavano, diventavano al tempo stesso proprietarie di notevoli possedimenti terrieri e signore di una notevole quantità di contadini dipendenti — usu, fruttuari e affittuari, determinava anche la particolarità della politica della città verso il Contado. Nella politica agraria delle città dell’Italia Settentrionale eCentrale c’eranó molti momenti positivi che avevano un carattere sostanzialmente antifeudale che contribuiva all’indebolimento della classe dei feudatari, favoriva la liberazione dei contadini dalla dipendenza personale, rafforzava l’autonomia politica e l’indipendenza economica dei comuni rurali, concorreva allo sviluppodelie forze produttive nel Contado. Nel frattempo intervenendo quale signore collettivo (o a nome dei cittadiniproprietari terrieri), il Comune della città, in diverse controversie e dispute scoppiate in legame a questo o a queir aspetto dei rapporti di affitto tra i contadini del Contado e i proprietari terrieri, quasi sempre si metteva dalla parte di questi ultimi. Le autorità cittadine reprimevano l’opposizione dei, contadini ai feudatari. Gli statuti delle città non solo confermavano' e sancivano nelle leggi di Stato, ma anche approfondivano le restrizioni e limitazioni dei diritti economici e sui beni degli affittuari e degli usufruttuari dipendenti. Limitazioni particolarmente grandi furono stabilite per i fittaioli a breve scadenza — affittuari e mezzadri. Sembrava che i cittadini — artigiani e mercanti dovessero vedere di buon occhiol’avvicendamento degli affittuari sull’appezzamento, a possibilità dell’ affittuario di dare l’appezzamento in subaffitto, di lavorare in qualità di salariato presso un altro proprietario, ecc., poiché tutto ciò apriva loro la strada per acquistare nuove terre, permetteva di investire in diversi modi i capitali nelle terre del Contado. Però> queste, al primo sguardo, «naturali esigenze» molto spesso venivano superate dal fatto che gli strati commerciali, artigianali erano; già proprietari terrieri e come tali non erano affatto interessati alla libera circolazione degli affittuari (naturalmente quando si trattava della volontà degli affittuari stessi, poiché l’espulsione dei fittaioli «pigri» dagli appezzamenti veniva riconosciuta del tutto «legittima»), non erano interessati al passaggio delle loro terre in subaffitto, ecc. Sarebbe semplicistico ritenere che i Comuni appoggiassero in tutti i casi i proprietari terrieri. Sulle loro posizioni incidevano sia i loro rapporti con i magnati, sia la possibilità di attirare nella città i contadini dipendenti e gli affittuari, sia altri momenti. Perciò a volte nelle fonti noi ritroviamo tali deliberazioni delle curie cittadine, nelle quali gli affittuaricontadini vengono protetti dalle pretese smisurate e ingiuste dei proprietari terrieri. Però in sostanza, i tentativi degli affittuari di opporsi alTadempimento di certi obblighi furono respinti non soltanto dai proprietari, ma anche dal '«potere supremo» — Comune della città. Le deliberazioni delle città relative all’agricoltura, anche se contribuivano alla migliore conduzione dell’azienda da parte di singoli affittuari, «tirando» al livello dei metodi più progrediti quelle aziende ove questi ultimi non si erano applicati prima, in seguito livellando il progresso della produzione agricola raggiunto in singole aziende, esse cominciarono a volte ad ostacolare l’ulteriore sviluppo di tali aziende. L’indipendenza di singole aziende contadine era particolarmente ostacolata da un rigido regolamento sulla vendita e sullo smercio di certi prodotti agricoli nei mercati della città. Gli interessi dello strato superiore della città entravano qui in una palese e profonda contraddizione con gli interessi dei contadini del Contado e del distretto, e la limitazione dei diritti di questi ultimi non era affatto a favore della popolazione urbana nel :suo rifornimento con i prodotti agricoli del Contado. Le fonti dell’ XI—XIV secolo non contengono notizie sulle grandi lotte di classe dei contadini contro i loro signori nell’Italia Centrale e NordOrientale, simili alle rivolte di Dolcino o di Tuchini. Però i documenti e le deliberazioni delle curie cittadine testimoniano pienamente la resistenza quotidiana dei contadini e di intere comunità ai loro signori, il loro rifiuto di adempiere agli obblighi, i tentativi di occupare le terre signorili e di uccidere certi feudatari, il rifiuto di riconoscere sè stessi servi della gleba o in generale persone dipendenti dai feudatari, la fuga dei servi della gleba dai signori. Le autorità cittadine in simili controversie e negli scontri di classe di solito stavano dalla parte dei signori — proprietari terrieri], in primo luogo esse applicavano le sanzioni contro quei contadini e contro le loro comunità i cui signori erano cittadini stessi o i feudatari del distretto leali verso la città, o prescindere dal Comune stesso. Dunque, la lotta delle città contro i feudatari del Contado, condotta da esse felicemente ed intensivamente nel corso del X—XIV secolo, verso la fine di questo periodo si riduceva sempre di più alla lotta contro i feudatari, come avversari politici. In questa direzione continuavano a riportare successi e vittorie. Quando si trattava invece di tali problemi come proprietà terriera, diritti e obblighi degli usufruttuari e affittuari, la loro rendita feudale, canone d’affitto e tasse, i cittadiniproprietari terrieri e lo strato superiore della città, che spesso interveniva nel loro interesse, cercavano innanzitutto di conquistare, ricevere a propria disposizione nuove terre, nuovi usufruttuari. A ciò contribuivano numerose confische di terre dei grandi. In generale nei possedimenti dei popolani non avveniva la trasformazione radicale del modo di sfruttare la terra. E qui stanno le origini dell’ incoerente e contradditoria politica agraria della città. Conclusione. Alcune peculiarità di sviluppo del feudalesimo netV Italia Centrale e Settentrionale del secolo XI0—XI V. Uno sviluppo eccezionale delle città in Italia, il loro dominio politico ed economico nel Contado condizionarono una serie di più importanti particolarità dello sviluppo feudale dell’Italia Centrale e Settentrionale nell’ XI—XIV secolo. Queste erano innanzitutto: notevoli modifiche nella struttura della proprietà feudale in seguito al trasferimento in città di centinaia di famiglie feudali, e in seguito al passaggio di una gran parte dei loro possessi terrieri nelle mani dei popolani — artigiani e mercanti e del Comune della città nella persona del suo ceto dirigente. Sulle terre dei nuovi proprietari terrieri, provenienti dai popolani e dai feudatari trasferitisi in città che si dedicarono all’ artigianato, al commercio e all’usura apparvero alcune caratteristiche di una nuovo organizzazione dell’economia. Però questi nuovi elementi a carattere semicapitalistico nella struttura sociale feudale della campagna erano ancora deboli e instabili e nel XIII0 — metà del XIV0 secolo non raggiunsero una più o meno vasta diffusione e sviluppo, restando isolotti in un mare di aziende feudali basate sul lavoro dei coloni, degli usufruttuari perpetui feudali e dei fittaioli a breve scadenza — mezzadri e affittuari. I mutamenti nella struttura sociale della campagna permettono di parlare di una nuova tappa di sviluppo del feudalesimo nel XIII~XIV secolo e non affatto della sua «decomposizione» o della «crisi». Anche l’evoluzione della rendita fondiaria diretta alla prevalenza e al dominio della rendita in natura, destinata allo smercio nei mercati delle città e per il consumo dei signori — cittadini e lori servitù, è strettamente legata al rapido ed impetuoso sviluppo di un gran numero di città al nord e al centro del paese, ai mutamenti nel sistema del possesso fondiario feudale. Il dominio politico della città sulla campagna condizionò il fenomeno cosi importante per l’Italia come l’intervento di alcune più grandi citta (Bologna, Firenze, Parma, Assisi ed altre) quali liberatrici di una grande quantità di contadini dalla servitù della gleba. Nel frattempo da precarietà e la debolezza dei germi di nuovi rapporti in questa nuova tappa di sviluppo del feudalesimo in Italia nel XIII—XIV secolo, il graduale processo crescente del ravvicinamento e persino della fusione dei feudatari trasferitisi in città con gli artigiani ed i mercanti che acquistavano le terre nel Contado, determinarono Vincoerenza e la contradditorietà della politica agraria della città e più ancora il rallentamento delle nuove trasformazioni e persino la conservazione di alcune strutture superate dal tempo. Lo studio delle peculiarità dello sviluppò feudale nell’Italia Settentrionale e Centrale nell’ XI—XIV0 secolo, permette — a nostro parere — di esprimere giudizi anche di carattere più generale relativi ad alcuni aspetti dello sviluppo del feudalesimo italiano. Innanzitutto vi è la vitalità della tradizione romana in Italia. Nella società dell’Italia Settentrionale e Centrale dell’ XI—XIV0 secolo, gli elementi romani avevano ancora un ruolo sostanziale (e si tratta non soltanto e non tanto della ricezione del diritto romano poiché essa aveva un certo terreno). Nel secondo periodo del Medio Evo, nel XII—XIIP secolo, nell’epoca del feudalesimo sviluppato, nella realtà italiana riscontriamo ovunque non soltanto una grande diffusione (probabilmente persino la prevalenza) dei contadini, che si avvicinavano ai proprietari parcellali — livellari, enfiteuti ed altri usufruttuari ma anche il duro servaggio dei servi e dei coloni. I servi che si trovavano a quasi compietà disposizione del padrone e non avevano nemmeno i minimi diritti personali e sui beni (aggiungiamo che spesso non erano usufruttuari delle terre ma famuli domestici e servitori di corte) in una certa misura erano simili agli schiavi antichi. Mentre i coloni ascritti alla terra nell’ XII0—XIIP secolo (il che veniva sancito in modo legislativo in molti statuti delle città) avevano una palese impronta di molti indizi del colonato dell’Italia romana e ostrogota. Delle tradizioni romane ci ricordano anche i contratti di livello e di enfiteusi (daltronde nell’ XI0—XIIP secolo, essi erano in sostanza l’usufrutto feudale). I modi della emancipazione dei servi applicati nella pratica reale dell’ Italia dell’ XP—XIIP secolo, mediante la loro proclamazione dei «cives romani», prescindendo dai prosessi giudiziari, dagli organi amministrativi del Comune, dalla terminologia degli appellativi delle personalità ufficiali — tutto questo testimonia pure sulla notevole influenza degli elementi romani (e, mettiamo in rilievo, non soltanto del carattere giudiziario), e — cosa assai importante — la loro influenza sulla struttura sociale della società feudale sviluppata. Ancora, il problema della funzione delle città e della loro influenza sullo sviluppo del Contado (economica e politica). Le città, come è noto, erano centri della lotta antifeudale, dei moti antifeudali nel Medio Evo, come se fossero state destinate a questa funzione «dalla loro natura stessa» di centri della produzione mercantile e dello scambio, e verso la fine del Medio Evo, in singoli casi, quali centri dei primi rapporti capitalistici nascenti. Questo concetto generale va applicato un po diversamente nei riguardi dell’ Italia, sebbene le città italiane nel XII—XIV secolo, per il livello del loro sviluppo fossero progredite in Europa. Nella politica agraria delle città italiane c’erano molti aspetti progressivi, ma se ne è già parlato dettagliatamente. In generale la politica agraria delle città era molto contradditoria, e sui problemi della emancipazione dei contadini nel loro «proprio» Contado e distretto, nella soluzione delle dispute e con troversie dei contadini con i proprietari terrieri, nella politica verso i comuni rurali, ecc. La trasformazione di molti popolani in proprietari terrieri (in generale di tipo feudale anche con elementi dei nuovi rapporti nei loro metodi economici) esercitò una influenza decisiva sulla tendenza essenziale nella politica delle città verso i feudatari vicini: questi ultimi erano in primo luogo per loro avversari politici ( e più in là ancora di più), ma nelle loro azioni principali nel Contado le città si ispiravano assai spesso agli interessi dei popolani — proprietari terrieri. Che cosa può essere detto di specifico sulla classe dei feudatari italiani? Innanzitutto la sua debolezza rispetto ai feudatari dell’ Europa occidentale. In Italia in virtù della mancanza del potere centrale nel corso di molti secoli, non si formò un completo sistema gerarchico di rapporti di vassallagio, poi in generale questo sistema era molto più debole ad esempio della Francia e della Germania ed esso non contribuiva nella stessa misura come nei paesi summenzionati al consolidamento della classe feudale. La sparizione molto repentina già nell’ secolo, o una forte riduzione delle terre dominiche, la decomposizione di molte tenute feudali, il passaggio delle terre feudali nelle mani degli artigiani e dei mercantiusurai, infine il trasferimento in città di un grande numero di feudatari, li indeboli fortemente come classe (in questo casa lasciamo da parte 1‘esistenza di diversi raggruppamenti in seno ai feudatari e l’ineguale inserimento di diversi strati della classe feudale nei rapporti mercantilimonetari). Ma probabilmente la cosa ancora più sostanziale era un’altra e cioè lo specifico ambiente sociale del feudatari italiani. Molti di loro da tempo abitavano in città ove si trovavano pure i centri amministrativi ed economici delle loro tenute e si dedicarono presto all’artigianato e ancora di più al commercio e all’usura. Il legame dei feudatari con l’attività commerciale, artigianale che si rafforzò molto in seguito al trasferimento in città di centinaia di famiglie feudali, costituiva l’altra faccia del processo del legame dei popolani al possesso terriero (per l’Italia ambedue questi aspetti erano egualmente importanti). Tuttavia per i loro metodi di sfruttamento dei possedimenti terrieri i feudatari medioevali italiani, nel complesso, non diventarono «nuova nobiltà» (a parte, certo, le eccezioni) e ciò in una certe misura predeterminò l’ulteriore sviluppo dell’economia agraria. Soltanto in Italia le città poterono «spezzare» il dominio politico dei feudatari. Ciò avvenne in risultato dell’eccezionale potenza economica ed in seguito politica di molte città divenute cittàStato ancora nel XII—XVIII secolo, e che utilizzarono contro i loro avversari tutto il loro apparato amministrativo, giudiziario, militare e fiscale. E non soltanto per questa ragione. La vittoria delle città diventò possibile (rileviamo che sarebbe del tutto sbagliato vedere la loro lotta contro i feudatari come una sola marcia vittoriosa. La resistenza dei feudatari era lunga ed accanita, la vittoria non era facile) anche in seguito alla debolezza economica e politica dei feudatari, condizionata, accanto alle altre cause di cui si è già parlato, dalla mancanza del potere centrale, il quale almeno a volte avrebbe potuto essere un alleato potenziale o reale. Ed infine forse ancora più importante era il mutamento dell’ aspetto sociale dei feudatari. Se cosi si può dire la vittoria delle città sui feudatari era preparata gradualmente dall’ interno. I feudatari non erano (successivamente ancora maggiormente) più «quelli» o propriamente «quelli». E cionondimeno la lotta contro di loro non si concluse affatto neanchè nel XIII0 secolo, e prosegui per tutto il XIV secolo, sebbene essa conoscesse molti compromessi e concessioni provocate dalle particolarità dell’ ordinamento sociale economico o politico della città e del distretto. Lo sviluppo specifico feudale in Italia permette di porre anche il problema sulle vie di evoluzione della rendita fondiaria feudale. Esso potrebbe essere il seguente: dalla rendita in lavoro e in natura alla prevalenza o a un grande ruolo della rendita in denaro ed in seguito nuovamente al dominio della rendita in natura. E qui di nuovo alla base della specificità italiana vi è lo sviluppo impetuoso delle città e dei rapporti mercantilimonetari. L’esempio dell’ Italia dimostra che l’aumento della produzione mercantile non è obbligatoriamente legato al dominio della rendita in denaro che subentra alla rendita in natura. In determinate condizioni la rendita in natura può soddisfare le ricnieste non soltanto dei feudatari del Contado, ma anche della popolazione urbana crescente. Le condizioni particolari che portarono al dominio della rendita in natura nell’Italia Settentrionale e Centrale alla fine del XII0— XIV secolo, esercitarono una notevole influenza sul posto e sul ruolo dell’azienda contadina nella produzione mercantile nella campagna. Il contadino italiano che produce nella propria azienda in notevole misura per la vendita (per la rendita o al di fuori) e che lui stesso porta i suoi prodotti in città (anche se non si presenta quale venditore) non può essere per niente isolato dallo sviluppo di questa produzione mercantile e dalle sue conseguenze. La rendita in natura non sempre e non in tutte le condizioni presuppone il legame soltanto dell’azienda signorile con il mercato e condizione la stagnazione e la, conservazione dei rapporti sociali. L’evoluzione dello stato socialé e giuridico dei contadini, la liberazione dei contadini dalla servitù della gleba nell’Italia Settentrionale e Centrale del XII—XIIF secolo, lo confermano eloquentemente. Ma nel frattempo il corso di sviluppo dell’ordinamento sociale nella campagna italiana nel XIIF—XIV secolo, testimonia che il dominio della rendita in natura, i processi del ravvicinamento economico e sociale dei feudatari e dei cittadini proprietari terrieri, hanno pure conseguenze negative, favorendo e condizionando in un certo modo la conservazione delle vecchie strutture e dei rapporti sociali. La traduzione di I. A. Scecina. |
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